Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, maggio 29, 2011

Philip Glass: introduzione

"Una storia consapevole del proprio valore è sorretta dalla convinzione forse presuntuosa - che si possono sfruttare le esperienze del proprio tempo senza condividerne le cecità. (Carl Dahlhaus)

Nel Novecento il grande fermento culturale rappresentato dalle Avanguardie in Europa prima e negli Stati Uniti poi, ha prodotto espressioni artistiche che sempre più hanno teso - e tendono tutt'oggi ~ alla commistione di quei generi che si sono affermati e codificati nel secolo precedente (dal melodramma alla musica strumentale, dal teatro di prosa ai primi esperimenti cinematografici), creandone di nuovi (come l'happening, per esempio). Questa tendenza si evidenzia maggiormente in un ambito come quello teatrale, nel quale diverse forme artistiche concorrono a creare un'opera più o meno unitaria.
Proprio Philip Glass, esponente della corrente sperimentale denominata minimalísmo musicale, è stato - fra i musicisti appartenuti all'avanguardia degli anni Sessanta e Settanta - tra quelli che più hanno operato a stretto contatto con l'ambito teatrale nelle sue varie forme, facendone il nucleo della propria attività. Egli, inoltre, ha ottenuto un successo di pubblico decisamente raro se confrontato con la popolarità, in certi casi molto limitata, raccolta dai suoi colleghi di estrazione colta. Cresciuto e formatosi nell'ambiente culturale e artistico del quale, all'inizio di questo percorso, tracceremo le caratteristiche principali, Glass ha elaborato una propria estetica musicale, generalmente identificata con quella corrente chiamata appunto minimalista che, se da un lato è condivisa da altri compositori come La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich, dall'altro è il frutto delle personali esperienze che egli ha maturato proprio nell'ambito del teatro in generale, e di quello di prosa in particolare. La sua carriera, iniziata come compositore di musiche di scena, ha portato Glass ad ampliare successivamente la propria attività, operando anche in altri campi, come sottolinea lo stesso compositore: "Sono passati [quasi quarant'anni] da quando ho
cominciato a lavorare in teatro con la prima compagnia dei Mabou Mines, schierandomi decisamente dalla parte progressista del teatro sperimentale. Il punto cardine del mio lavoro è stato sempre la collaborazione, con una attività che a mano a mano si allargava ad includere il teatro musicale il cinema e la danza". A questi ambiti artistici vanno aggiunti i contatti con il mondo della letteratura - per esempio con Doris Lessing e con Allen Ginsberg (con il quale peraltro condivideva l'interesse per le filosofie orientali) - e con la popular music. Sono queste collaborazioni che hanno dato modo a Philip Glass di elaborare una personale estetica musicale, applicata in primo luogo alle musiche di scena composte per la stessa compagnia teatrale Mabou Mines; musiche che rappresentano nel loro insieme una sorta di campionario della concezione teatrale glassiana, utilizzate di volta in volta con funzioni che vanno dal semplice commento musicale (per esempio in Dressed Like an Egg), a elemento strutturale dell'intera, pièce (come in Red Horse Animation). Ancora, queste esperienze lo hanno portato a creare opere estremamente innovative, prima fra tutte Einstein on the Beach, apice della prima stagione della sua produzione, realizzato a quattro mani con Bob Wilson. Un lavoro, questo, difficilmente riconducibile al teatro musicale tradizionalmente inteso, anche perché rappresenta un'esperienza che non si può ascrivere - per stessa ammissione dell'autore - né all'ambito del melodramma né a quello del teatro di prosa, suggerendo addirittura "l'ipotesi di una nuova drammaturgia" per cui l'unico rimando che mi pare adeguato - ma solo da un punto di vista strutturale - è quello con la forma teatrale del melologo dove, come accade nell'Einstein, viene attuato un meccanismo che si basa sulla "lettura o la declamazione di un testo in poesia o in prosa alternato o sovrapposto a brani per orchestra o per singolo strumento". Ma il melologo - nella sua primigenia concezione - era, comunque, narrazione; aveva il fine di esprimere, raccontare, far comprendere al meglio, se vogliamo, la vicenda messa in scena, e l'equilibrio di unità artistica perseguito era finalizzato alla rappresentazione la più perfetta possibile di tutto questo. Nell'Einstein, come vedremo, lo scopo programmatico è proprio l'opposto, come gli stessi autori dichiarano a più riprese in fase di ideazione e realizzazione dell'opera, e l'opera stessa conferma in sede di rappresentazione. Il congelamento dello spazio, ottenuto con l'estrema lentezza dei gesti e l'incombente immobilità delle immagini, e soprattutto del tempo, dilatato dallo scorrere di una musica che ritorna sempre a se stessa, riporta direttamente ad una finalità concretata nella negazione narrativa messa in atto sulla scena teatrale. Un carattere, questo, che - alla luce non tanto di una rappresentazione quanto di un oggetto scenico, quale sembra essere quest'opera, sganciato da ogni logica di messa in scena dialettica - induce a pensare all'annullamento di ogni valenza comunicativa se non nell'ottica della sola espressione di sé. Tutto ciò, che può sembrare addirittura scontato, assume rilevanza quando questa estetica musicale nata ín e per il teatro, viene utilizzata per sperimentare incursioni nel territorio della popular music, oppure impiegata da Glass con funzioni analoghe in un ambito artistico come quello cinematografico caratterizzato, come sappiamo, da una propria e particolare natura tecnica. E appunto in ambito cinematografico egli ha applicato inoltre quelle soluzioni, legate alle tecnologie della riproduzione musicale maturate in studio di registrazione con il Philip Glass Ensemble, il gruppo strumentale con il quale il compositore svolge tuttora un'intensa attività concertistica e di ricerca strumentale. Anche questo interesse verso i possibili utilizzi delle nuove tecnologie in ambito musicale rimanda a significative affinità proprio con la musica pop e rock, con la quale Glass coltiva frequenti contatti, collaborando con artisti come David Byrne, David Bowie, Laurie Anderson e Brian Eno, la cui attività si è rivelata notevolmente affine all'estetica musicale glassiana. Questo molteplice dinamismo ha, quindi, permesso al musicista di sviluppare il suo linguaggio musicale adattandolo alle necessità legate alle varie collaborazioni. In questa continua ricerca di rinnovamento, Glass vuole comunque sfuggire ad una sorta di manierismo minimalista, come sottolinea lui stesso: "Fu l'impatto con l'Asia che mi permise di creare il mio linguaggio, ma in quello che faccio adesso questo non si sente più. Il rischio era di diventare prigioniero, di cambiare un sistema accademico per un altro". In sostanza Glass - dalla metà degli anni Sessanta - adotta strutture ritmiche orientali per poi, dopo l'esperienza di Einstein on the Beach, ritornare ad armonie occidentali, utilizzando, infine, dagli anni Ottanta in poi, soluzioni tecnologiche (come la registrazione digitale o la multimedialità) sia per la produzione teatrale sia per quella destinata ad altri impieghi. In questo percorso il compositore si avvicina, come già accennato, ad ambienti artistici i più differenti, riscuotendo un considerevole successo, anche discografico. Un aspetto, questo, che entra pienamente a far parte del profilo complessivo di un musicista che, artisticamente nato in ambito colto, mutua, elaborandole, le estetiche del teatro d'avanguardia da una parte e, dall'altra, di quell'arte orientale che tanto ha influito sull'ambiente culturale statunitense, per poi perseguire varie e feconde commistioni stilistiche. Una visibilità, anche commerciale, quella di Glass, che non manca naturalmente di generare critiche che portano la sua musica ad essere indicata quale esempio - nell'ampio panorama dell'arte del Novecento - dello "slittare di molte forme artistiche contemporanee verso il mediocre, il ripetitivo, il revivalistico".
Alla luce di queste sintetiche considerazioni nasce quindi l'esigenza di esplorare l'attività di questo compositore estremamente prolifico, il cui percorso artistico - iniziato a metà degli anni Sessanta e tuttora in corso - resta comunque ancora complessivamente poco analizzato (soprattutto in Italia) nonostante una prospettiva storica che occupa ormai un quarantennio. Da questo punto di vista mi pare di primaria iinportanza cercare di illustrare innanzitutto i caratteri della musica teatrale glassiana e le funzioni alle quali questo artista ríconduce le proprie composizioni in rapporto agli altri elementi drammatici. In secondo luogo pare utile verificare se e come determinati principi compositivi ed estetico-musicali vengano applicati dal compositore sia ad ambiti affini a quello teatrale, come quello cinematografico, sia ad ambiti apparentemente distanti, come quello della popular music. Alla fine di questo percorso, inoltre, saremo forse in grado di comprendere meglio in che misura la fortuna di Philip Glass sia da attribuire al suo peculiare modo di concepire il teatro e l'arte musicale in genere, e quanto questo successo - decisamente atipico per un compositore contemporaneo influisca sulla sua opera profondamente caratterizzata da un eclettismo di fondo che egli stesso riassume in questo modo: "Noi Americani siamo gente di frontiera. Ma, europei ed americani, abbiamo in comune le musiche del Ventesimo Secolo: tonale, dodecafonica, pop, rock, e tutte le altre. Dobbiamo guardarle tutte assieme dimenticando le gerarchie. Ecco che vedremo le cose in modo differente".

Alessandro Rigolli (introduzione a "Philip Glass", Ed.Auditorium, 2003)

sabato, maggio 21, 2011

Sylvano Bussotti: "I semi di Gramsci"

Un omaggio musicale all'opera di Gramsci "I semi di Gramsci" di Sylvano Bussotti, eseguiti insieme con il "Quarto quartetto" di Malipiero e la "Grande aulodia" di Maderna a ricordo dei due musicisti scomparsi.
Siena, 27 agosto.
Celebre un tempo per avere ravvivato l'archeologia musicale, portando a contatto del pubblico i risultati dello scavo musicologico, la Settimana musicale senese, che giunge ogni anno a coronamento dei fortunati corsi di studio internazionali, sente sempre più forte l'attrazione del moderno. Ieri la trentunesima edizione della manifestazione fondata un tempo dal conte Chigi Saracini con Alfredo Casella, si è aperta con un atto di fede nella musica, italiana contemporanea. Nel pomeriggio hanno avuto luogo i consueti discorsi inaugurali: del direttore artistico Luciano Alberti su Spontini, di Leonardo Pinzauti su Puccini (autori presenti entrambi in questa «settimana»), dell'avv. Danilo Verzili, presidente dell'Accademia musicale chigiana, che nella sua relazione ha dato notizia d'un lusinghiero riconoscimento attribuito dalla Cee all'istituzione senese, e dell'on. Fracassi, sottosegretario al Turismo e Spettacolo, il quale ha portato il saluto del governo e la promessa di maggiori e concreti riconoscimenti. La sera, sempre nella sala dell'Accademia, perché l'incertezza del tempo impediva di tenere il concerto nel cortile del palazzo pubblico, il Quartetto italiano e, in coppia, Severino Gazzelloni flautista e Lothar Paber oboista, docenti dei corsi estivi dell'Accademia, hanno impartito una splendida lezione di interpretazione musicale ad altissimo livello, presentando opere di Malipiero e Maderna, i due compositori perduti l'anno scorso dalla musica italiana, e di Sylvano Bussotti, ben vivo questo, ed ormai assurto, dai capricci sperimentali di un tempo, a un rango incontestabile di maestro, per quanto strano possa suonare questo epiteto addosso a un personaggio così pieno di estri fuori ordinanza. Di Malipiero i meravigliosi artisti del Quartetto italiano hanno presentato il Quarto quartetto: del 1934, è meno famoso dei due che l'avevano preceduto, i Cantari alla madrigalesca e Rispetti e strambotti, forse perché non porta un titolo, ma non ne è meno essenziale e denso. Una polifonica melodia incessante nasconde l'asprezza del contrappunto nell'apparente spontaneità di un canto a più voci, dalle cui onde perennemente agitate e sovrapposte ogni tanto un rivolo di melodia isolata va a finire, come per un fenomeno di risacca, nel tranquillo golfo timbrico della viola. La Grande aulodia di Maderna e I semi di Gramsci, di Bussotti, sono stati eseguiti in una versione cameristica, consentita dagli autori, che isola gli strumenti solistici — rispettivamente la coppia di flauto ed oboe e il quartetto d'archi — prescindendo dall'orchestra. Nella Grande aulodia viene così proiettata in primo piano la disperata volontà melodica ch'era una costante dell'arte di Bruno Maderna, e quasi, si direbbe, un simbolo della sua personalità, tutta protesa alla conquista d'una felicità terrena malgré tout. Non direi che non si senta, qua e là, un'impressione di vuoto: Maderna era un tale maestro dell'orchestra, proprio come la sua vita d'uomo felice per vocazione è stata così crudelmente piena d'affanno. Tanto più poetica risulta la bellissima chiusa del pezzo, uno di quei momenti miracolosi che fioriscono ogni tanto nella sua arte, quando il possesso della melodia vi si insedia come un pegno di raggiunta beatitudine. Gazzelloni e Faber, col loro arsenale di flauti, oboi ed affini, grandi e piccoli, hanno eseguito il pezzo non solo con la bravura ben nota, ma con affetto e commozione di amici, rendendo trasparenti le intenzioni espressive dell'artista scomparso, che del diverso registro degli strumenti d'una stessa famiglia si serviva come d'un mezzo sicuro di caratterizzazione poetica. I semi di Gramsci sono una composizione, anzi, un «poema sinfonico per quartetto e orchestra», dedicato da Bussotti al Quartetto italiano. Non conoscendone la versione integrale, devo dire che nella esecuzione per solo quartetto non si avvertono segni d'incompletezza. L'autore spiega di avere concepito la partitura orchestrale quasi come la prigione in cui il protagonista — il quartetto — è rinchiuso. Ciò nonostante, e malgrado la provocatoria qualifica di «poema sinfonico», nel pezzo non c'è nulla di descrittivo. Mille allusioni estensive si possono leggere nel titolo: ma I semi di Gramsci, documentati da una scelta di passi delle lettere dal carcere, sono semplicemente i semi vegetali che il detenuto coltivava in «un quarto di metro quadrato» di terreno del penitenziario, appassionandosi al loro sviluppo con la stessa lucidità d'intelligenza storicistica con cui esplorava le ragioni della storia d'Italia e delle classi sociali europee. Da queste premesse si potrebbe temere un sentimentalismo bucolico di georgica carceraria. No: negli ispidi e arruffati scatti del discorso quartettistico, solo placati in un a solo del secondo violino, tagliato su misura per il suono della Pegreffi, e nella bellissima chiusa per il violoncello solo, il Gramsci che viene fuori non è il povero carcerato tubercolotico, bensì il maestro, la guida, perfino il tribuno, tanto forte di cervello e di carattere quanto macilento nel fisico. Una bella serata musicale, stimolante e coraggiosa: il calore spontaneo degli applausi non andava forse soltanto allo splendore delle esecuzioni, ma, nella persona di Bussotti e nel ricordo di Malipiero e Maderna, anche a questa nostra nuova musica che, cresciuta attraverso tante diffidenze ed ostacoli, mostra di meritare la fiducia in essa riposta, e a dispetto delle previsioni pessimistiche di interessati demagoghi, si sta perfino, piano piano, conquistando un pubblico.

Massimo Mila ("La Stampa", mercoledì 28 agosto 1974)

sabato, maggio 14, 2011

Piero Farulli: "Fine e Principio", 1978

Paolo, Lisa e Franco decidono di continuare con Asciolla. Rottura.
La Torraccia, una vera sede per la Scuola.
«... Ci hanno detto che il suo cuore ha ceduto. A pensarci adesso, ci meravigliamo che non abbia ceduto prima; che non abbia ceduto in quelle sere tremende in cui esigeva da se stessa la perfezione emozionante dell'interpretazione ... ».
Scrisse così Teodoro Celli quando morì Maria Callas. Senza volermi paragonare a quella illustre artista, ben più sfortunata di me, queste parole possono servire per spiegare ciò che mi accadde. Lascio dire ad altri se le nostre interpretazioni fossero perfette: io però mi sento di affermare che per noi ogni concerto, al Musikverein di Vienna o in un qualsiasi borgo, era cosa sacra. Salivamo sul palco come ad un altare laico. E mettavamo nel "rito" tutta la tensione morale e fisica di cui eravamo capaci. Niente di strano che il cuore di uno di noi dovesse, prima o poi, subire una pausa. Era toccato a me.

Mi svegliai presto quel primo gennaio. Avevo dei presentimenti oscuri. Così pensai di scrivere a Franco, Lisa e Paolo per invitarli a parlare del nostro futuro. E per informarli che, in base a ciò che mi avevano detto i medici, con tutta probabilità non avremmo potuto ricominciare a tenere concerti prima di settembre. A prescindere dal momento esatto della ripresa dell'attività, bisognava fare dei piani, dei progetti, affinché quello che era avvenuto non succedesse di nuovo. Insomma il nostro lavoro andava programmato in base alle nostre forze e alla nostra età.

Vívevo in una quarantena fisica e mentale. I medici mi avevano imposto una ripresa di contatto lentissima e graduale con il mondo. Le notizie di qualsiasi genere erano filtrate accuratamente da Ninetta. Della Scuola sapevo da Adriana. I ragazzi si stavano preparando per i primi saggi e anche all'appuntamento con l'Estate Fiesolana per L'Arca di Noè, che sarebbe stato uno spettacolo da presentare come biglietto da visita della Scuola.

Intanto fui preso in cura a Firenze da un cardiologo scrupoloso e attento, Bruno Caini. Ma i tempi di recupero erano per me eternamente lunghi. Bisogna anche ricordare che, allora, l'atteggiamento della cardiología era diverso: non ci si poteva ritenere fuori dai rischi se non dopo un lunghissimo periodo di riposo completo. Nel 1993, quando ebbi il mio secondo infarto, dopo un mese ero nuovamente al lavoro. Invece quella volta il professor Caini mi ordinò di non rimettermi a suonare prima della fine di febbraio e di non riprendere l'attività col Quartetto prima di giugno. Il che significava ricominciare a far concerti, effettivamente, a settembre: era impensabile dato che giugno se ne sarebbe andato per le prove, che mi rimettessi a suonare in piena estate. Oltretutto il Quartetto aveva già deciso da tempo un completo riposo dalla metà di giugno fino ad agosto.

Certo, era spiacevole dover rinunciare ad alcuni mesi di concerti. Ma col cuore non si può scherzare. Non mi venne in mente nemmeno per un istante che Franco, Elisa e Paolo avrebbero potuto scegliere una strada diversa da quella che comportava una sosta di tutti. I miei compagni mi chiesero di poter parlare direttamente con il cardiologo, per stabilire il da farsi. Ci rimasi male: la cosa aveva quasi il sapore di una visita fiscale. L'incontro avvenne in un giorno a metà di febbraio. Caini confermò tutto. Anche se con disagio, Paolo, Lisa e Franco convennero che non si poteva fare altro che interrompere momentaneamente l'attività del Quartetto.

In questa situazione, Nínetta mi dava forza e tranquillità. Così cominciai a preoccuparmi quando, all'inizio di marzo, la vidi agitata e tesa. Ad un certo punto lei capì che me n'ero accorto e che non poteva più tenermi all'oscuro su quanto era accaduto. Perché se da un lato sapeva di darmi una notizia sconvolgente, da un altro era consapevole che io, e solo io, dovevo prendere una decisione non più rinviabile. Così mi disse, con tutta la dolcezza, la calma, l'amore di cui era capace, che era arrivata una lettera di Franco, Elisa e Paolo. Inutile cercare di descrivere il mio stato d'animo dopo che ebbe finito di leggermela, forse cambiando qualche parola, qualche frase che poteva farmi più male: ma la sostanza non poté cambiarla. Allora le dissi: «Ninetta, per favore, scrivi ...».

«Cari Lisa e Paolo, caro Franco,
Ninetta mi ha dato, con inimmaginabile preoccupazione per le conseguenze che essa avrebbe provocato alla mia salute in questo particolare momento, la vostra lettera del 28 febbraio con cui, smentendo le assicurazioni date durante la visita da voi richiesta presso il Professor Caini sulla scontata sospensione dell'attività del Quartetto fino al mio completo ristabilimento, mi comunicate di voler riprendere senza di me tale attività, adducendo ragioni di forza maggiore e di opportunità, e chiedendomi di consentire alla vostra iniziativa.
Cerco di essere il più sereno possibile nel rispondervi, anche se stupisce costatare che a soli due mesi dal mio incidente vi siate potuti dimenticare di quello che abbiamo sempre comunemente inteso per ben 30 anni come serietà professionale e artistica... per tacere poi dell'aspetto umano e morale del vostro comportamento che non mi convince e che tutto sembra, men che amichevole.
Ma veniamo alla richiesta, che mi fate, di consentire a che il Quartetto riprenda la sua attività con un mio sostituto, sia pure nella bizantina forma di presentazione dei concerti "per" e non "del" Quartetto Italiano.
Per coerenza con quello che ho sempre accanitamente sostenuto, anche quando sono state ventilate sostituzioni di altri membri, dico subito di no: innanzitutto per il nome del Quartetto, per la sua profonda e rispettata serietà professionale; quanto alle ragioni di forza maggiore che invocate, nel 1952 il Quartetto ha cancellato la tournée di ben 74 concerti a causa dell'indisposizione di Paolo, senza che nessuno si sia sognato di sostituirlo, nonostante le pressioni telegrafiche e telefoniche fatte dalla Colbert: ed eravamo sul nascere della nostra carriera! Ora che dalla carriera abbiamo avuto tutto, e con quanta fatica, inverosimilmente vi sembra impossibile rinunciare alla decina di concerti che abbiamo in programma fino all'inízio della stagione 1978-79! In questo ambito, se non fosse offensivo, sarebbe ridicolo il riferimento che fate alla mia "tranquillità". Ma a monte di me e di voi sta il Quartetto Italiano, che, come ben dite, è di voi tre ed è mio, anzi è noi quattro insieme.
A tutela del nome prestigioso, che dite di voler salvare, e dell'unità artistica del complesso, ritengo equivoca una ripresa dell'attività artistica del Quartetto in una formazione diversa dall'abituale, sia pure in concerti "per" il Quartetto Italiano, che hanno tutta l'aria di un mezzuccio inventato per salvare la faccia... Se è vero, come è vero, che nel Quartetto Italiano nessuno è sostituibile, voi siete liberi di sciogliere il nostro più che trentennale sodalizio e di costituire altri complessi, ma a tutto questo deve rimanere estraneo qualsiasi riferimento al Quartetto Italiano, il cui nome intendo tutelare, non solo sul piano morale, contro ogni abuso che altri o voi stessi intendano compiere.
[...] confido che vogliate considerare ancora una volta e molto attentamente la situazione, assumendovi pienamente le vostre responsabilità in questo mio momento di forzato riposo, tenendo conto che le previsioni del mio medico, come voi ben sapete, non sono per una mia lontana presenza nelle sale da concerto, mentre il termine della mia convalescenza, prevedibile per l'inizio dell'estate e così in concomitanza della pausa richiesta da Franco, potrebbe farci riprendere l'attività in settembre. Nel frattempo, come già vi dissi nella mia lettera di gennaio, dovremmo rivederci per discutere una ragionevole, graduale ripresa della nostra attività, nel rispetto delle esigenze di ciascuno dei non più giovanissimi componenti del Quartetto Italiano.
Vi ringrazio, comunque, della solidarietà che mi avete voluto esprimere, per quanto di buono si può leggere nella vostra lettera e mi auguro che non abbiate, in un futuro che nessuno sa quanto lontano, a provare il disagio e l'amarezza che hanno accompagnato le mie tante ore.
Vi vorrei salutare con le parole che Vígolo dedica a Hölderlin: "Non si dà poesia che non sia fuoco solidale dello Spirito, convergenza di tutti i suoi raggi nel momento divino dell'Io poetico, poiché il valore della Poesia si conserva integro, solo quando è mantenuto il rapporto totale con lo Spirito e con il vivente"».

Non scrissi questa lettera solo per mettere le cose in chiaro. Fu anche un modo di difendermi. Se non reagivo avrei avuto un altro crollo, stavolta definitivo. In quel momento non riuscivo a trovare conforto nemmeno nella Scuola, nella consapevolezza che avrei potuto riprendere la viola, negli amici. Dovevo sostenere un'idea, o meglio un ideale: che Quartetto Italiano non era un nome ma un mondo, fatto dall'esempio dei grandi maestri, da noi e dal nostro lavoro, dai pensieri che avevamo suscitato in trent'anni, coi concerti e i dischi, in milioni di persone. Applicare questo nome a qualsiasi altra cosa sarebbe stato ingiusto.

Il formidabile filtro realizzato da Nínetta con il mondo esterno m'impedì di sapere che sia il mio rifiuto sia la richiesta di riflettere non avevano avuto effetto. E non ebbe effetto nemmeno un mio ultimo, disperato tentativo: un certificato medico inviato ai miei compagni a metà marzo. Vedendo che, nonostante tutto, il cuore migliorava, il professor Caini attestò che non era da scartare l'eventualità di un mio completo ristabilimento per l'inizio di maggio.

Speravo che potesse aprire uno spiraglio. E invece, il primo aprile, a Carpi, il Quartetto tenne il suo primo concerto nella nuova formazione con Dino Asciolla alla viola. Ironia della sorte, ricominciava proprio lì dove aveva cominciato nel 1945: senza di me. Difficile non attribuire all'episodio un valore simbolico, anche se involontario.

Inevitabile, anche se Ninetta raccomandava a tutti di sorvolare sull'argomento, che gli amici che venivano da me per visitarmi mi portassero notizie fresche. Così seppi che il Quartetto suonava a Mantova, alla Piccola Scala, a Santa Cecilia, con programmi prevalentemente schubertiani e con quell'op.161 che ci era costata mesi di lavoro. Che facevano precedere i concerti dalla lettura di un comunícato in cui mi si augurava pronta guarigione e rapido rientro. E che non usavano, come avevano detto di voler fare, la formula "Concerto per il Quartetto Italiano". A Santa Cecilia il 7 aprile la locandina fu la solita, Quartetto Italiano, con la sola differenza che nell'elenco dei nomi, il mio era sostituito da un altro. Bruno Cagli su «Paese sera» scrisse di quel concerto: «[...] sul piano umano la vicenda non è stata senza strascichi penosi e l'immagine del Quartetto ne è uscita un po' appannata [...] nemmeno musicalmente possiamo dire di aver ritrovato, nell'op.13 di Beethoven, il Quartetto Italiano che abbiamo amato nel passato».

Intanto il mondo musicale aveva saputo. Aveva saputo anche quello che c'era dietro le notizie ufficiali. E la notizia aveva suscitato meraviglia. Al punto che ci fu chi decise di scrivere ai miei compagni per manifestare il suo stupore. Come Lucíano Berio. Pubblico la sua lettera, di cui m'inviò una copia, con la sua autorizzazione. Non lo faccio perchè suoni come un intervento a mio favore, bensì perché le nobili parole di Berio esprimono con estrema pacatezza il dispiacere di un esponente prestigioso dell'ambiente musicale per una vicenda così amara.

«Cari Borcianí, Pegreffi e Rossi,
non sono certamente il primo né l'ultimo a dirvi che ho sempre amato profondamente il vostro modo di far musica e che vi devo moltissimo. Per questo ho sempre fatto il possibile per venire ai vostri concerti (vi ho ascoltato l'ultima volta a New York). Qualche mese fa a Parigi volevo riascoltarvi negli ultimi Quartetti di Beethoven e quando mi hanno detto che il concerto era annullato ho provato una stretta al cuore perché ho immaginato che Piero Farulli era ammalato (ne avevo già sentito parlare). Ma una stretta al cuore ancor più forte l'ho provata quando ho saputo che avete sostituito Farulli, ancora in ospedale, senza neanche prevenirlo, dopo trent'anní di lavoro assieme: cioè in una maniera così estranea al vostro modo di far musica. Ví domanderete cosa c'entro io dal momento che, sui piano personale, conosco a malapena sia voi che Farulli. Il fatto è che siete anche una cosa pubblica, un bene nazionale, qualcosa di cui essere fieri, qualcosa, infine, che anche Farulli ha contribuito a costruire.
Mi domando, alla luce di questo triste episodio, se la presenza di Farulli nel Quartetto Italiano non fosse solo una presenza musicale ma anche morale.
Sinceramente
Luciano Berío
Parigi, 21 maggio 1978».

Prese di posizione come quella di Berio e la solidarietà di critici come Pinzauti, ma soprattutto il mio crescente disagio, mi spinsero in maggio a un gesto che fece precipitare la situazione. Decisi che l'equivoco non doveva continuare. I miei compagni non potevano dire che mi auguravano pronta guarigione e rapido rientro, come se queste cordiali dichiarazioni pubbliche sottintendessero che io ero d'accordo con loro per la questione della sostituzione, sia pure temporanea. Così scrissi ai giornali una lettera aperta per rístabilire la verità. La risposta di Paolo, Lisa e Franco fu una lettera dell'avvocato che mi comunicava la loro intenzione di escludermi dal Quartetto. A quasi sessant'anni di età, la parte fino allora più importante della mia vita era finita. Il grande sogno si rompeva definitivamente, in maniera drammatica. Mi fu vicino e di grande conforto, in questo stato di totale smarrimento, Paolo Barile, che fu in grado di darmi consigli preziosi, legali e umani, evitando che la mia pena si perpetuasse ancora. Barile non mi avrebbe più abbandonato: è stata sua l'idea dell'associazíone Amici della Scuola di Musica di Fiesole, da lui fondata e di cui è tuttora presidente.

Tutto ciò che in quel periodo non riguardava il Quartetto lo feci come un automa, con la mente sempre monopolizzata dall'angoscia. Un momento di consolazione fu la Festa a Goffredo Petrassi, il concerto che avevo organizzato in aprile per la stagione della Normale di Pisa. Commovente, l'abbraccio di Petrassi al violinista Sandro Materassi, suo coetaneo, dopo l'esecuzione di Elogio per un'ombra.

Ma in quei momenti terribili, il Cielo mi mandò un aiuto. Un aiuto per la Scuola. Da molti anni conoscevo i coniugi Furno. Lui era un giurista molto noto. Ci aveva avvicinati la musica (aveva una formidabile collezione di dischi a 78 giri) e l'antifascísmo: erano ebrei. A loro, persone importanti e influenti, mi ero raccomandato più volte. Nel 1978 Carlo Furno mori: la moglie Lucia, che era nel consiglio dell'Ospedale degli Innocenti, un'antica opera di assistenza all'infanzia, mi donò i suoi dischi: «Ormai stanno meglio nella Scuola che a casa mia», disse. Ma questo non era nulla in confronto al regalo che mi fece poco dopo.

Sulla collina fiesolana c'è un luogo che noi vedevamo come un eden: La Torraccia. Una grande villa ed altri edifici in un parco vasto e bellissimo con alberi alti e sottili e un prato meraviglioso. Era la sede estiva dell'Ospedale, dove gli orfani andavano in vacanza. Quell'anno l'istituzione ebbe problemi di soldi e non fu possibile avere il personale per organizzare il soggiorno dei bambini. Un giorno la signora Furno mi disse: «Oggi pomeriggio ti vengo a prendere e andiamo in un posto». Ero molto depresso e volevo rifiutare, non avevo idea di quello che si stava prospettando. Ma, anche per gentilezza, dissi di sì.

Quando entrammo dal cancello principale fu una sorta di ubriacatura, vedendo in lontananza la grande villa. «Noi non la possiamo usare. Perché non vi ci sistemate voi? Per adesso nell'edificio grande non si può entrare, però vi potreste arrangiare nella dépendance», disse la signora. Fu una stupenda emozione. La Scuola stava affrontando i primi, grossi problemi. Mancavano i soldi per gli strumenti e per tutte le cose basilari. In realtà una sede più bella e ampia avrebbe comportato una spesa cui non eravamo preparati. Ma i dubbi me li gettai alle spalle. Avere una vera casa sarebbe stata una molla tale da farci superare ogni difficoltà. Fiesole era una grande famiglia. Per le sovvenzioni non ho mai avuto timore. Se avessi aspettato la certezza degli aiuti economici, non avrei fatto nulla. E poi la Scuola cominciava ad avere i primi riconoscimenti. Tre allievi avevano vinto borse di studio e premi in concorsi nazionali e internazionali. I ragazzi andavano a suonare nelle scuole del circondario e tenevano manifestazioni di vario genere, come una cerimonia in onore del liutaio Igíno Sderci, quello che aveva fatto la mia viola.

Abbracciando la signora Fumo, accettai commosso.

Ancora oggi mi chiedo in che misura quella decisione, che doveva spostare tutto l'asse della mia vita, fu condizionata dalle vicende con il Quartetto. Bene: non fu solo per ripiego, o per far venire la montagna da Maometto (ovvero per lavorare nella mia città, evitando i continui viaggi). A parte la mia vocazione all'insegnamento, a parte le condizioni miserande dell'educazione musicale, era anche la situazione dell'istruzione musicale professionale che lasciava a desiderare. I programmi dei Conservatori? Sempre gli stessi. La musica d'insieme? Una cenerentola. E non si faceva quasi per nulla musica del Novecento. Basta vedere nei verbali del Consiglio d'amministrazione del Conservatorio Cherubini, di cui facevo parte. Una volta proposi di allargare il campo della musica contemporanea, allora affidata al solo Carlo Prosperi, facendo venire Sylvano Bussotti. Lavrei portato gratis per un seminario di 20 giorni. Ma la cosa cadde sia perché a Firenze non faceva piacere ad alcuni sia perché al Ministero, a Roma, di "avventure" non volevano sentir parlare. Questa era la mentalità.

Che la Scuola si mettesse in vista con un'operazíone importante era fondamentale. E quindi programmai L'Arca di Noè come spettacolo inaugurale dell'Estate Fiesolana. Quella sera tremavo come non avevo mai fatto con il Quartetto. Ma andò magnificamente. Direttore era il nostro insegnante di solfeggio, Míno Magrini. Le percussioni erano gli allievi del percussíonísta del Teatro Comunale Vittorio Ferrari, che diventò il nostro primo insegnante in questo settore. Scene e costumi erano disegnati dagli allievi dell'Accademia di Belle Arti, classe di pittura di Fernando e di scenografia di Ferdinando Ghelli.

Tutti s'ímpegnarono in un clima straordinario fatto di totale amore per il proprio lavoro. Estremamente poetica la regìa di un giovanissimo, Ugo Chiti, che tenne saldamente in pugno lo straordinario coacervo di forze. «Questa iniziativa va ricordata in ogni caso come una lezione di civiltà», scrisse Mauro Conti sull'«Unità». L'Arca ebbe tanto successo da essere ripresa in autunno dalla televisione; poi, un piccolo giro di rappresentazioni in Toscana. La Scuola, a quattro anni dalla sua nascita, aveva dato i primi segni di vita.

L'entrata nella Torraccia mi aveva dato nuova linfa e lavoravo a buon ritmo. In ottobre tre novità: numero uno, Mario Casalini, l'editore, accettò di essere il primo presidente dell'Assocíazione Scuola di Musica di Fiesole, e con lui il professor Giovanni Guazzone, docente universitario, accettò la vicepresídenza; era per me, per tutti noi, un bel sostegno. Numero due, ci concessero anche l'uso della limonaia della villa, cioè di altre stanze. Numero tre, apparve il primo impiegato alla segreteria, Vincenzo Fani. L'attenzione intorno a noi cresceva e il 31 ottobre avemmo il primo articolo di Leonardo Pinzautí sulla «Nazione», sotto il titolo "Quella scuola di Fiesole". Bello, anche se il mio vecchio compagno di Conservatorio insisteva un po' troppo nel definirmi «tormentato e tormentante», per affermare che quando mi mettevo in testa una cosa non mollavo la presa.

Da quando Piero Farulli non fa più parte del Quartetto Italiano.. sono molti quelli che si domandano come passi ora le sue giornate: dal Conservatorio Cherubini di Firenze, dove insegnava fino a due anni fa, si ritirò per farsi mettere in pensione anticipata, e il fatto non mancò di suscitare meraviglia in chi conosceva la sua età (non ha ancora sessant'anni) e soprattutto la sua passione per l'insegnamento...
«Pierone». come lo chiamano affettuosamente, non è stato con le mani in mano: ha inventato, è proprio il caso di dirlo, una scuola di musica davvero «sui generis»... Il che, per la verità, ha anche i suoi aspetti curiosi, specialmente in rapporto con quel che sta accadendo a Firenze: qui il Cherubini, come si sa, continua a svolgere la sua attività in locali che da più di dieci anni hanno il cartello dei «lavori in corso»... Invece la «scuola di Farulli' è stata ospitata nelle dépendances della splendida Torraccia...
...qui c'è ora Farulli che, con un gruppo di collaboratori giovani e meno giovani, ha impiantato la «Scuola di musica di Fiesole'. la quale vive come un'associazione di mutuo soccorso, con mezzi irrisori... e con professori volontari; ma proprio per questo in un clima di entusiasmo e disciplina di cui "Pierone" è l'inesauribile motore. Ne sanno qualcosa... un po' tutte le autorità amministrative: perché Farulli non dà tregua a nessuno, come se la diffusione dell'educazione musicale fosse una vera e propria opera di carità...
Ma evidentemente per riuscire a realizzare qualcosa di positivo bisogna avere addosso questo tipo di ansiosità e di tensione: alla Torraccia studiano ora, con gli orari più diversi (perché fra gli iscritti figurano anche adulti che imparano la musica al termine di una giornata di lavoro), oltre 150 allievi... In più è stato istituito un coro di bambini... Insomma, fra Firenze e Fiesole è nato un nuovo conservatorio, anche se con finalità diverse... quel che si cerca, nei ragazzi e negli adulti, è suscitare la felicità di una pratica musicale, il superamento di radicate diffidenze, il recupero e la valorizzazione di energie che avrebbero potuto andare disperse...


Per la Scuola era l'inizio di una seconda fase. Le iscrizioni balzarono da cento a centosessanta. Decisi di affrontare il problema dell'educazíone alla musica dei piccoli attraverso il coro. Lo affidai a una giovane americana che aveva studiato anche composizione con Dallapiccola: Joan Yakkey, tuttora valorosa animatrice e direttrice dei 4 cori della Scuola riservati ai giovanissimi. Aprimmo poi una classe di tecnica vocale a sostegno del coro di adulti che Elio Lippi aveva costituito nel '77. Mettemmo in programma una lista di attività sul territorio lunga così. Già il 7 novembre a Palazzo Vecchio c'era stato un concerto della classe di violino metodo Suzuki per le celebrazioni dell'anno internazionale del bambino organizzate dall'Unesco.

L'otto dicembre, finalmente, l'inaugurazione della nuova sede.

Una cerimonia semplice. Parlai degli sforzi dei miei cofiaboratorí. Assicurai che la Scuola non intendeva essere una brutta copia dei Conservatori, ma voleva essere aperta ed accessibile a tutti, favorendo, oltre all'ingresso dei giovani, anche quello degli adulti (ímpiegati soprattutto nel coro). Parlai, e mentre parlavo frammenti di pensiero si agitavano nella mia mente. Erano ricordi d'immagíni sonore che non mi avrebbero mai lasciato. L'attacco di un Beethoven a New York, un lento di Haydn ad Amsterdam, una pausa di un Webern a Tokyo fino ad un crescendo nelle Variazioni della Morte e la fanciulla nell'ultimo concerto ad Ivrea. Ero povero perché non avrei più provato le stesse sensazioni, ero immensamente ricco perché quell'esperienza aveva fecondato il mio animo con il seme dell'apostolato. Avrei continuato a suonare con la mia viola in altre formazioni, ma ancor più avrei continuato ad avvicinare la gente alla musica suonando per interposta persona, tramite gli allievi della Scuola.

Piero Farulli (tratto da "Il suono dell'Utopia", Passigli Editori, 1999)

sabato, maggio 07, 2011

Paolo Terni: Courante "La Sardonique"

La memoria, inceppata, rimetteva ostinatamente in circolo gli stessi frammenti musicali: frasi arcigne, rocciose, inutilmente propositive (irritanti, in verità). In nessuna sintonia apparente con il clima del momento. Per di più mi era impossibile dar loro un nome, riportarle nell'alveo di una piena, rassicurante, identità.
Andavo ad imbarcarmi a Porto Torres. Ero diretto a Torino.
La macchina - un maggiolino color sabbia - era molto carica: album telati ricolmi di LP, e libri, e sgabelli di fèrula. Anche tavole di legno verniciato e mattoni per il montaggio di rapide librerie. E la vecchia stufa romana, a gas. Nelle borse patetici ciclostilati...
Tra i libri una raccolta di giornali di bordo, relazioni, memorie marinare íntitolata Avventure e viaggi di mare (Feltrinelli, 1959): non me ne potevo separare, in particolar modo per un piccolo capolavoro di assoluta dissennatezza tratto dal1'Hidrographie di padre Fournier. Si trattava de Il pesce vescovo, brano che non mi stancherò mai di rileggere: «Nel Mar Baltíco, verso la costa di Polonia e di Prussia, fu pescato nell'anno 1433 un uomo marino, il cui aspetto era in tutto quello d'un vescovo: aveva in capo la mitra, la croce in mano, ed ogni altro paramento di cui sogliono rivestirsi i vescovi quando celebrano la Santa Messa. La pianeta gli si sollevava facilmente fino al ginocchio tanto davanti quanto dietro.
«Permise che molte persone lo toccassero, specialmente i vescovi di quelle contrade, verso i quali, come diede ad intendere a gesti, nutriva un profondo rispetto. E benché non parlasse, capiva bene quanto gli si diceva.
«Volendo il re rinserrarlo in una torre, fece intendere che ciò non gli aggradava, e poiché i vescovi pregarono il re di lasciarlo tornare al mare, egli, a gesti, ne li ringraziò. Entrato poi nel mare fino all'ombelico, dopo aver salutato i vescovi e la moltitudine accorsa, e impartito loro la benedizione con un segno di croce, si tuffò e disparve alla vista ... »...
Introducevano il furetto in una fessura del muro a secco. Ne riemergeva istantaneamente, avvinghiato al collo di una povera lepre che saltava qua e là, disperata, correndo come impazzita dallo spavento e dal dolore. Non volevo partecipare a tanta crudeltà: mi ero ritratto, non prima però di avere istintivamente raccolto nell'erba un batufolo di ovatta grigio-beige puntato dai cani. Era un leprotto neonato... Lo nascosì in una tasca e tornai di corsa a casa...
Perché mai, fra i tanti, proprio questo ricordo, brutale, dissonante?
Le procedure dell'imbarco mi distolsero dai pensieri quando, a un tratto, la memoria riprese a vivere, i lacerti musicali si ricomposero - a mente snebbiata nell'ouverture Coriolan di Beethoven, e si sciolsero gli enigmi: Coriolano era anche il nome che, con altri amici, avevamo scherzosamente voluto attribuire al piccolo animale salvato!...
E questo doppio segnale a eco, siccome ammutolito per pochi attimi in un binario morto della memoria, non ebbe più modo di trattenere un'altra serie di immagini, fino a quel punto rimaste mute, indecifrabili, solo vagamente intuibili: iconografia mentale che mi si veniva configurando, nel sofferto distacco, già irreversibile, come una sorta di confusa relazione sui miei rapporti con la musica, vissuti allora con entusiasta disordine o mera casualità: moltitudini di ascolti che percepivo come siderali astrazioni irrisolte nel silenzio antico di quelle plaghe; assieme alle loro sterili combinazioni, poi, con un mondo di affetti intensi ma già vetrificati: un mare di onde rifratte insomma, stranamente terree, solidificate, incompiute, a malapena assorbite dalla flemma terribile di quel paesaggio...
La Sardegna, così, mi rimandava al mittente. Con sbrigativa, energica, sobrietà. Non senza, però, la sorda venatura di uno strano, anche pudicissimo, senso d'incompiutezza, come una nostalgìa vissuta con tristezza ma lievemente recitata, un pochino troppo insistita...

Paolo Terni (da "Un vento sottilissimo", Sellerio, 2002)